Il PIL misura la ricchezza prodotta da un Paese, ma non sempre descrive con esattezza il livello di benessere di una collettività nazionale. Infatti:
– non tiene conto delle transazioni non monetarie, per esempio le prestazioni gratuite tra familiari, il volontariato, l’autoconsumo o il baratto;
– comprende anche la ricchezza generata da eventi o attività negativi per la popolazione, come gli incidenti stradali, le catastrofi ambientali ecc.;
– non considera i valori passivi determinati dalla produzione di beni, come la distruzione di risorse naturali non rinnovabili o i costi sociali;
– non tiene conto di fattori quali la qualità della vita o le disuguaglianze sociali.
Questi limiti sono emersi già da molti anni, come puoi scoprire ascoltando un famoso discorso di Robert Kennedy (18 marzo 1968).
Il PIL è tuttavia un’approssimazione accettabile, soprattutto se viene valutato insieme ad altri indici di benessere o di crescita, alternativi o complementari.

In questo brano, Enrico Giovannini (presidente dell’ISTAT dal 2009 al 2013), sintetizza le ragioni del dibattito che da qualche tempo vede il Prodotto interno lordo “sotto accusa” per la sua inadeguatezza a misurare il benessere di una nazione:

“Chiuda un attimo gli occhi e pensi alle tre cose che augurerebbe a suo figlio, a un nipote, a un amico per il resto della sua vita.
Se la risposta fosse ‘diventare più ricco possibile, anno dopo anno’ allora il PIL è la sua misura.
Se invece rispondesse, come fa normalmente la gente, ‘una buona salute’, ‘un buon lavoro’, ‘amici’, ‘la possibilità di vivere in un ambiente sano’, allora capirebbe subito che il PIL non è la misura del benessere” […]
“D’altra parte, quando è stato inventato, negli anni Trenta del Novecento, nessuno lo aveva pensato come la misura del benessere. Si era in piena recessione e il vero problema era capire quale fosse il livello della produzione, ma soprattutto come questa produzione si legasse agli investimenti in opere pubbliche, all’occupazione e così via.”

Tratto da Enrico Galantini, Il PIL non basta più

Uno degli indicatori creati per colmare le lacune del PIL è l’Indice di sviluppo umano (ISU), proposto negli anni Novanta del XX secolo e adottato dall’UNDP.

L’ISU considera essenzialmente tre dimensioni fondamentali dello sviluppo umano: salute, misurata con la speranza di vita alla nascita; accesso alla conoscenza, misurato dagli anni di istruzione; livello decoroso di vita, misurato dal PIL pro capite PPA. I Paesi del mondo sono divisi in 4 classi: a sviluppo molto alto, alto, medio e basso ( carta ).

Sono stati elaborati anche diversi Indicatori del benessere sostenibile fondati su numerosi fattori riguardanti condizioni materiali, stato di salute, livelli formativi, opportunità occupazionali, impiego del tempo, possibilità di partecipare ai processi decisionali politici, relazioni sociali, condizioni ambientali ecc. Vari fattori, però, non sono misurabili con precisione e ciò rende questi indicatori molto indeterminati.

Per avere un’idea su questi argomenti e indicatori puoi consultare questa pagina del sito ISTAT, che illustra un progetto congiunto ISTAT-CNEL per misurare il benessere equo e sostenibile, utilizzando parametri non solo di carattere economico, ma anche sociale e ambientale.

Un altro indicatore alternativo o complementare al PIL è il Genuine Progress Indicator (GPI), in italiano “Indice del progresso reale”, sviluppato nel 1995 dall’organizzazione no-profit Ridefining Progress.

Questo indicatore si propone, come il PIL, di misurare lo sviluppo economico, rispecchiando però più realisticamente le condizioni di benessere di uno Stato

A differenza del PIL, il GPI distingue fra transazioni economiche positive, che aumentano il benessere dei cittadini, e transazioni economiche negative, per esempio i costi per le spese mediche o gli incidenti stradali, o quelli determinati dalla criminalità o dall’inquinamento.

Il GPI considera inoltre le attività non monetizzate, come il lavoro domestico o il volontariato, i danni recati all’ambiente e la distribuzione del reddito.

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